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Atlante di un uomo irrequieto

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“Le storie non accadono, le storie vengono raccontate”.

Con questa premessa, Christoph Ransmayr introduce un libro di episodi, di fatti che non sarebbero storie se non fossero raccolte in un volume. Nei settanta racconti di “Atlante di un uomo irrequieto” non c’è uniformità narrativa, non c’è un unico, grande filone tematico se non quello rappresentato dallo stile, minuziosamente descrittivo, dell’autore.

Queste storie, infatti, non sono resoconti di eventi straordinari: spesso nei vagabondaggi del viaggiatore irrequieto non è accaduto nulla di speciale e le storie sono tali solo perché Ransmayr ha deciso di collezionarne le immagini. Gli incontri, le escursioni o le semplici passeggiate sono filtrati dalle impressioni dell’autore e dalla sua puntualità descrittiva, che trasformano un momento altrimenti ordinario in narrativa. Nel libro abbondano infatti le storie che nascono dall’osservazione dell’infinitamente piccolo (Il pianista) o dell’infinitamente ampio: montagne, oceani, ghiacciai. E ancora cieli, firmamenti sconfinati la cui oscurità è interrotta solo dai puntini luminosi delle stelle. In un libro che parla per immagini, questo è uno dei tanti “quadri” in parole che, frequenti all’inizio dei racconti, consentono una totale immersione nel contesto descritto, come avviene anche sul fondo del mare in cui dorme la balena di Nel profondo o nella cisterna sotterranea di Yerebatan.

«Ho visto»: ogni racconto si apre con una formula che è al tempo stesso testimonianza e dichiarazione d’intenti. Da un lato, conferma al lettore che ciò che si narra è il frutto della propria esperienza diretta, dall’altro però è un avvertimento: ciò che è descritto è filtrato dalla lente soggettiva delle proprie conoscenze e dei propri sentimenti. Questa soggettività non si mostra attraverso giudizi o morali sugli episodi narrati, rispetto ai quali l’autore rimane impassibile ai limiti della dissociazione -una forma di straniamento ancora più evidente nell’episodio personalissimo eppure spersonalizzato della morte del padre. Il filtro si avverte in altro: da un lato l’attenzione scientifica nella descrizione di animali e paesaggi, dall’altro la frequente confusione dei piani di tempo, di verità e leggenda, come avviene nella visita alla tomba di Omero, o durante la festa messicana dei Dìas De Los Muertos.

Del resto, «dietro il paesaggio più incantevole o struggente ci sono sempre uomini»: l’uomo-narratore innanzitutto, e le incredibili varietà umane che incontra nel viaggio, ricondotte a unità da un sentire e da un agire comune. Nonostante le diverse tradizioni, le spinte che governano l’agire umano sono universali, come dimostrano, agli estremi opposti del globo, le faide e le passioni selvagge che sconvolgono il paradiso dell’isola di Pitcairn; l’invasione della sfera personale attraverso un’insensata sorveglianza nel manicomio austriaco come nel mausoleo russo di Lenin; l’istinto di protezione del padre verso il figlio che rema sul Mekong, che è lo stesso che si manifesta verso il cameriere statunitense di Raccoglitori di stelle; la pietà per i defunti dal Messico al cimitero ebraico di Třebìč. In questa galleria di istinti, spesso gli uccelli sono assunti a simbolo della curiosità, della voglia di scoperta che li porta a sorvolare le isole più remote.

Il viaggio di Ransmayr è quello di un uomo che può sentirsi straniero in patria e accolto ai margini del mondo, perché il senso di estraneità dipende dal carattere e dall’esperienza, prima che dalla propria cittadinanza, e a riportare l’irrequieto viaggiatore a casa, come a spingerlo a partire, sono le persone della sua vita.

Al centro del libro c’è anche un altro sentimento, il senso di responsabilità per le vicende del mondo: dalla responsabilità storica per il colonialismo e le sue conseguenze, a quella per le grandi invasioni dell’uomo sull’ambiente, nel suo eterno tentativo di dominare una madre-natura che pure è la fonte di ogni sostentamento e che a ogni distrazione riafferma la sua sovranità su tutti gli animali con maremoti, tempeste, o semplicemente penetrando con liane e radici nelle crepe e nell’incuria delle costruzioni abbandonate (La regina della selva).
È un libro complesso, sotto molti punti di vista: la lettura è poco scorrevole, a tratti risulta difficile a causa di una sintassi ricca di incisi e subordinate, della precisione a volte eccessiva nella descrizione di piante e animali, la cui comprensione richiederebbe la consultazione di un dizionario. A livello contenutistico, il lettore ne esce smarrito, frastornato dalla miriade di esperienze attraverso cui l’autore lo conduce. È un po’ come fare una crociera: si toccano tante mete in modo fugace, sono tanti assaggi di un viaggio che andrebbe approfondito, rallentato.

Ciò che rimane a fine lettura, più che un ricordo nitido dei singoli episodi, è un’impressione. Un senso di vastità, di infinito, perché nonostante i racconti siano tanti, non rappresentano che un frammento di un mondo molto più vasto, popolato da miliardi di persone e di situazioni, di cui il libro offre solo un piccolo spunto, filtrato dall’ottica di un osservatore.
È una narrazione adatta a chi ama viaggiare e che invoglia a farlo. «Non c’è un momento in cui io senta di aver visto abbastanza», ha dichiarato Ransmayr. Non si tratta solo di partire, ma di esplorare, di scegliere la via secondaria, quella meno battuta; di visitare la meta meno turistica, immergendosi nella cultura e nelle persone di un paese, più che nelle escursioni segnalate dalle guide, di preferire il viaggio lento e non programmato al mordi-e-fuggi. La lettura di questo volume andrebbe gustata, meditata, un pezzo alla volta. Senza seguire l’ordine predeterminato, ma facendosi guidare dall’istinto verso un paese-racconto.

  • Autore: Christoph Ransmayr
  • Genere: Racconti di viaggio (361 pp.)
  • Filone letterario: Narrativa austriaca
  • Casa editrice: Feltrinelli
  • Anno di pubblicazione: 2015

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